INTRODUZIONE ALLA LETTERA ENCICLICA “FRATELLI TUTTI”
ENCICLICA
Il Papa, vescovo di Roma e guida spirituale della Chiesa cattolica, ha molti modi per comunicare e per insegnare al popolo di Dio. Di solito lo fa attraverso l'Angelus domenicale, le catechesi del mercoledì, le prediche durante le messe dal lui presiedute e i discorsi. L'insieme di tutti questi interventi formano il magistero del Papa (il suo insegnamento ai fedeli e agli uomini di buona volontà, cioè di coloro che non credono, ma vedono nel papa un punto di riferimento spirituale per orientarsi).
Tra i vari pronunciamenti magisteriali, uno dei più normativi e importanti è sicuramente la lettera Enciclica. Questo tipo di lettera, di solito abbastanza corposa, può sviluppare diversi temi. Per questo ci sono le encicliche di fede, le encicliche morali e le encicliche sociali.
PER CAPIRE
Papa Francesco mette a tema della sua enciclica la fraternità, e lo fa prendendo spunto ed esempio da san Francesco dʼAssisi, il grande santo medievale, tessitore di fraternità, il santo dellʼamore fraterno, della semplicità e della gioia (cf. nn. 1-2).
Prima domanda: su cosa fonda il papa la fraternità? Perché riconoscerci fratelli e sorelle?
Francesco fa una distinzione circa i credenti e i non credenti. Per i non credenti, atei o agnostici il fondamento della fraternità è la dignità di ogni essere umano, correlata con i suoi diritti fondamentali (libertà di autodeterminazione, di pensiero, di coscienza, di culto, di informazione). Interessante notare che il papa non parla solo di una fratellanza, ma di una fraternità, che sottolinea un legame più forte, concreto, non già dato a priori ma da costruire. La fratellanza, possiamo abbozzare questa idea, è data dal legame di sangue (pensiamo a Caino e Abele) ed è un dato di fatto; la fraternità invece è il 'ponte' che si costruisce sopra. Il papa, al n.272 lo dice in questo modo: «La ragione, da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità».
PER CAPIRE
Papa Francesco parla dell'amore nel cap. terzo. Non ne parla a livello teorico ma in concreto: per sperimentare l'amore occorrono volti concreti da amare (n.87). L'amore deve essere estroflesso (n.88), attento all'altro (n.93) e deve tendere verso la comunione universale (n.95). Un universalismo che è geografico ma anche esistenziale. (nn.97-98).
Francesco si chiede: in cosa consiste l'esperienza di amare? E' un movimento che pone l'attenzione sull'altro, considerato come un altro se stesso (...). L'amore all'altro ci spinge a cercare il meglio per la sua vita (n.93). ci vengono in mente le parole di una preghiera di Madre Teresa di Calcutta: “non dare solo le tue cure, dai il tuo cuore!”.
PER CAPIRE
Papa Francesco affronta il tema dellʼascolto nel capitolo primo, dove parla degli ostacoli alla fraternità e invece di ciò che la favorisce. Mentre il Papa ci aiuta a riflettere sul tema della comunicazione, accenna allʼazione di mettersi seduti e di ascoltare lʼaltro, che è un paradigma di atteggiamento accogliente, di chi supera il narcisismo e accoglie l’altro, gli presta attenzione, gli fa spazio nella propria cerchia. Lʼascolto diventa allora una precondizione per accogliere lʼaltro, facendo sì che lʼaltro si possa rivelare per quello che è, cioè appunto “altro-da-me”.
Quali potrebbero essere allora le caratteristiche di un ascolto autentico? Proviamo ad elencarle brevemente:
Lʼascolto non riguarda solo lʼesperienza umana, ma anche e soprattutto lʼesperienza di fede. Fides ex auditu, dicevano gli antichi: la fede nasce dallʼascolto. Il Dio cristiano è un Dio che parla, che si rivela e si fa conoscere e lʼessere umano è chiamato ad ascoltare e dunque ad accogliere le sue parole. Lo avevano capito bene gli ebrei, che iniziavano la preghiera con lo Shèmà Israel (ascolta,Israele!).
Tuttavia, scrive Francesco, «il mondo di oggi è in maggioranza un mondo sordo […]. A volte la velocità del mondo moderno, la frenesia ci impedisce di ascoltare bene quello che dice l’altra persona. E quando è a metà del suo discorso, già la interrompiamo e vogliamo risponderle mentre ancora non ha finito di parlare. Non bisogna perdere la capacità di ascolto» (n.48). Siamo diventati tutti davvero un poʼ sordi e impazienti... così però mettiamo in pericolo la struttura basilare di una saggia comunicazione umana (n.49).
Il Papa crede fortemente che la ricerca della verità avvenga attraverso il dialogo, la conversazione pacata e la discussione appassionata. Eʼ un cammino non facile, impegnativo, a volte faticoso, ma sicuramente fecondo.
Infine Francesco suggerisce una riflessione su cosa significhi essere saggi, sapienti. Scrive: Il cumulo opprimente di informazioni che ci inonda non equivale a maggior saggezza. La saggezza non si fabbrica con impazienti ricerche in internet, e non è una sommatoria di informazioni la cui veracità non è assicurata. In questo modo non si matura nell’incontro con la verità. Le conversazioni alla fine ruotano intorno agli ultimi dati, sono meramente orizzontali e cumulative (...). Servono spiriti liberi, disposti a incontri reali (n.50).
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Papa Francesco parla della comunicazione e dellʼinformazione digitale nel primo capitolo e lo fa in modo molto critico: questo tipo di comunicazione, seppur utile, non costruisce la fraternità. Anzitutto perché, paradossalmente, mentre crescono atteggiamenti chiusi e intolleranti che ci isolano rispetto agli altri, si riducono o spariscono le distanze fino al punto che viene meno il diritto all’intimità. Tutto diventa una specie di spettacolo che può essere spiato, vigilato, e la vita viene esposta a un controllo costante. Nella comunicazione digitale si vuole mostrare tutto ed ogni individuo diventa oggetto di sguardi che frugano, denudano e divulgano, spesso in maniera anonima. Il rispetto verso l’altro si sgretola e in tal modo, nello stesso tempo in cui lo sposto, lo ignoro e lo tengo a distanza, senza alcun pudore posso invadere la sua vita fino all’estremo (n.42).
«I media digitali possono esporre al rischio di dipendenza, di isolamento e di progressiva perdita di contatto con la realtà concreta, ostacolando lo sviluppo di relazioni interpersonali autentiche».
C’è bisogno di gesti fisici, di espressioni del volto, di silenzi, di linguaggio corporeo, e persino di profumo, tremito delle mani, rossore, sudore, perché tutto ciò parla e fa parte della comunicazione umana. I rapporti digitali (...), hanno un’apparenza di socievolezza. Non costruiscono veramente un “noi”. (...) La connessione digitale non basta per gettare ponti, non è in grado di unire l’umanità (n.43).
Si parla anche di “aggressività sociale”, la quale trova nei dispositivi mobili e nei computer uno spazio di diffusione senza uguali (n.44). Ciò ha permesso che le ideologie abbandonassero ogni pudore. Quello che fino a pochi anni fa non si poteva dire di nessuno senza il rischio di perdere il rispetto del mondo intero, oggi si può esprimere nella maniera più cruda anche per alcune autorità politiche e rimanere impuniti. Non va ignorato che «operano nel mondo digitale giganteschi interessi economici, capaci di realizzare forme di controllo tanto sottili quanto invasive, creando meccanismi di manipolazione delle coscienze e del processo democratico (n.45).
Da questo processo neppure i cristiani sono immuni: essi «possono partecipare a reti di violenza verbale mediante internet e i diversi ambiti o spazi di interscambio digitale. Persino nei media cattolici (...) si tollerano la diffamazione e la calunnia, e sembrano esclusi ogni etica e ogni rispetto per il buon nome altrui» (n.46).
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Papa Francesco tocca il tema del dialogo[1] nel capitolo sesto dellʼenciclica. Inizia affermando che il dialogo aiuta il mondo a vivere meglio, perché per incontrarci dobbiamo dialogare, di un dialogo paziente, perseverante e coraggioso. Dialogo si riassume nei verbi avvicinarsi, esprimersi, ascoltarsi, guardarsi, conoscersi, provare a comprendersi, cercare punti di contatto (n.199).
Continua il Papa: tra l’indifferenza egoista e la protesta violenta c’è un’opzione sempre possibile: il dialogo. (...) Spesso lo si confonde con un febbrile scambio di opinioni, o con monologhi infiniti, talvolta dai toni alti e aggressivi (n.200). La mancanza di dialogo ha una conseguenza grave: quella per cui nessuno si preoccupa più del bene comune. Così i colloqui si ridurranno a mere trattative (n.202).
Poniamoci allora questa domanda: cosa favorisce un costruttivo e autentico dialogo? Alcune possibili risposte:
Poi il Papa passa a parlare dellʼautentico dialogo sociale. Esso presuppone la capacità di rispettare il punto di vista dellʼaltro, le sue convinzioni e i suoi valori (n.203); necessita di una comunicazione tra le varie discipline, dal momento che la realtà è una, benché possa essere accostata da diverse prospettive e con differenti metodologie.
Francesco tocca anche la relazione che c’è tra dialogo e media, i quali hanno delle innegabili possibilità ma anche diversi limiti, in particolare nella ricerca di ciò che è vero (n.205). Il Papa mette in guardia anche dal relativismo (n.206) e poi si sofferma sul tema della verità, la quale non è solo una comunicazione di fatti ma è la ricerca dei fondamenti solidi che stanno alla base delle nostre scelte e delle nostre leggi. (...) Indagando la natura umana, la ragione scopre valori che sono universali, perché da essa derivano (n.208).
Tornando al dialogo sociale, afferma il Papa, in una società pluralista, il dialogo è la via più adatta per arrivare a riconoscere ciò che dev’essere sempre affermato e rispettato, e che va oltre il consenso occasionale. Parliamo di un dialogo che esige di essere arricchito e illuminato da ragioni, da argomenti razionali, da varietà di prospettive, da apporti di diversi saperi e punti di vista e che non esclude la convinzione che è possibile giungere ad alcune verità fondamentali che devono e dovranno sempre essere sostenute. Accettare che ci sono alcuni valori permanenti, (il Papa li chiama “princìpi morali fondamentali e universalmente validi; valori in sé, apprezzati come stabili per il loro significato intrinseco, cf. nn.231-214) benché non sia sempre facile riconoscerli, conferisce solidità e stabilità a un’etica sociale (n.211).
Il dialogo, che si fa incontro, per il papa richiede anche lʼaccettare la possibilità di cedere qualcosa per il bene comune (è il compromesso, che non viene visto negativamente). Occorre un “realismo dialogante” di chi crede di dover essere fedele ai propri principi, riconoscendo tuttavia che anche l’altro ha il diritto di provare ad essere fedele ai suoi (n.221).
[1] Parola di origine greca: dia-logos che significa letteralmente “attraverso il significato della parola (delle parole)”.
PER CAPIRE
Il Papa nellʼenciclica affronta alcuni temi sociali significativi e lo fa partendo da una convinzione fondamentale: la destinazione universale dei beni creati, principio fondamentale della dottrina sociale cattolica, annunciato fin dai primi secoli (n.119-120). In questa linea Francesco ricorda che «la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata».[95] (...) Il principio dell’uso comune dei beni creati per tutti è il «primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale»,[96] è un diritto naturale, originario e prioritario.[97]. Il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati (n.120). Anche in questo caso, comunque, il diritto di proprietà non viene demonizzato, anzi, possiede un significato positivo: custodisco e coltivo qualcosa che possiedo, in modo che possa essere un contributo per tutti (n. 143).
Nessuno deve essere escluso dalla possibilità di potersi auto realizzare e costruire il proprio futuro (n.121). Per tale ragione il diritto di alcuni alla libertà di impresa o di mercato non può stare al di sopra dei diritti dei popoli e della dignità dei poveri; e neppure al di sopra del rispetto dell’ambiente, poiché «chi ne possiede una parte è solo per amministrarla a beneficio di tutti».[100] A riguardo dellʼattività imprenditoriale il papa non la critica a priori, al contrario afferma che essa «è una nobile vocazione orientata a produrre ricchezza e a migliorare il mondo per tutti».[101]. Tuttavia tale attività deve avere sempre lo scopo primario di promuovere il diritto di tutti a utilizzare i beni della terra e la produzione da cui essi deriva.
Il Papa va oltre e proclama che, alla luce di questi princìpi ogni nazione e ogni territorio sì appartiene a chi lo abita, ma è anche di tutti. Tutti devono poterne beneficiare. Dunque no a paesi di serie “A” che sfruttano e depredano paesi di serie “B” (nn.124-125).
Nel capitolo quarto viene affrontato il binomio globalizzazione – localizzazione. Francesco invita a tenere insieme questi due poli: occorre da una parte guardare al globale, che ci riscatta da una mentalità casalinga e corre il rischio di farci cadere in una meschinità quotidiana; al tempo stesso bisogna assumere la dimensione locale, che arricchisce e avvia dispositivi di sussidiarietà (n.142).
Un altro tema sociale importante è il lavoro. Secondo il papa «non esiste peggiore povertà di quella che priva del lavoro e della dignità del lavoro». (...) Il lavoro è una dimensione irrinunciabile della vita sociale, perché non solo è un modo di guadagnarsi il pane, ma anche un mezzo per la crescita personale, per stabilire relazioni sane, per esprimere sé stessi, per condividere doni, per sentirsi corresponsabili nel miglioramento del mondo e, in definitiva, per vivere come popolo (n.162).
Infine un accenno al mercato, che da solo non risolve tutto, benché a volte vogliano farci credere questo dogma di fede neoliberale. Si denuncia anche la speculazione finanziaria con il guadagno facile. Secondo Francesco occorre promuovere unʼeconomia che favorisca la diversificazione produttiva e la creatività imprenditoriale, affinché sia possibile aumentare i posti di lavoro invece di ridurli (n.168).
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Il Papa, mentre accenna alla politica, inizia il discorso parlando delle sue deformazioni. In primo luogo si tratta il tema del populismo, che viene contrapposto con il positivo “senso di popolo”. Il populismo, secondo Francesco, ignora la legittimità della nozione di popolo (n.157). Far parte di un popolo è far parte di unʼidentità comune fatta di legami sociali e culturali.
E questa non è una cosa automatica, anzi: è un processo lento e difficile, verso un progetto comune (n.158). La categoria di “popolo” è aperta: esso rimane costantemente aperto a nuove sintesi, assumendo in sé ciò che è diverso. Non lo fa negando se stesso, ma piuttosto con la disposizione ad essere messo in movimento e in discussione, ad essere allargato, arricchito da altri, e in tal modo può evolversi. Unʼaltra espressione degenerata è la ricerca dellʼinteresse immediato (n.161), che non crea reale sviluppo perché offre risposte provvisorie e talvolta insufficienti.
Francesco poi passa a criticare le visioni liberali individualistiche, in cui la società è considerata come una mera somma di interessi privati che coesistono (n.163). E qui si fa un accenno a ciò che la tradizione cristiana chiama “concupiscenza”, ovvero lʼinclinazione dellʼessere umano a chiudersi nellʼimmanenza del proprio io, del proprio gruppo, dei propri interessi (n.166).
Un accenno infine al potere internazionale. Secondo il Papa oggi diventa indispensabile sviluppare istituzioni internazionali più forti ed efficacemente organizzate, con autorità designate in maniera imparziale mediante accordi tra i governi nazionali e dotate del potere di sanzionare. Questo per assicurare il bene mondiale, sradicare la fame e la miseria, difendere i diritti umani fondamentali (n.172). In questa prospettiva, ricordo che è necessaria una riforma «sia dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) che dell’architettura economica e finanziaria internazionale, affinché si possa dare reale concretezza al concetto di famiglia di Nazioni» (n.173). E qui viene in aiuto il principio di sussidiarietà, attraverso il quale aggregazioni e organizzazioni minori e comunità aiutano la Comunità internazionale integrando in modo complementare lʼazione dello Stato (n.175).
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Papa Francesco dedica lʼultimo capitolo al tema dellʼ ecumenismo e del dialogo interreligioso. Già allʼinizio della lettera (n.5) Francesco afferma che, come la redazione dellʼenciclica Laudato Sì è stata ispirata dallʼinsegnamento del patriarca ortodosso Bartolomeo, nel caso della Fratelli Tutti il papa si è sentito stimolato dallʼincontro con il Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb e dal documento che ne è scaturito[1].
Lʼaffermazione è perentoria: tutte le religioni siano a servizio della fraternità umana. E il fondamento ultimo di questa convinzione è che siamo tutti fratelli e sorelle perché figli dellʼUnico Dio (n. 272). Da qui, per i credenti, nasce la trascendente dignità della persona umana (n.273). Un annuncio, quello religioso, che non può essere relegato nel privato, ma che può e deve essere manifestato pubblicamente, perché rendere presente Dio è un bene per le nostre società. Al contrario, «quando, in nome di un’ideologia, si vuole estromettere Dio dalla società, si finisce per adorare degli idoli, e ben presto l’uomo smarrisce sé stesso, la sua dignità è calpestata, i suoi diritti violati» (n.274).
Continua Francesco al n. 276: benché la Chiesa rispetti l’autonomia della politica, non relega la propria missione all’ambito del privato. Al contrario, «non può e non deve neanche restare ai margini» nella costruzione di un mondo migliore, né trascurare di «risvegliare le forze spirituali»[266] che possano fecondare tutta la vita sociale. È vero che i ministri religiosi non devono fare politica partitica, propria dei laici, nemmeno però possono rinunciare alla dimensione politica dell’esistenza[267] che implica una costante attenzione al bene comune e la preoccupazione per lo sviluppo umano integrale. La Chiesa «ha un ruolo pubblico che non si esaurisce nelle sue attività di assistenza o di educazione» ma che si adopera per la «promozione dell’uomo e della fraternità universale».[268].
Parole importanti, soprattutto quelle sui ministri della chiesa, che, tuttavia, a nostro parere, devono essere integrate e interpretate da quelle che troviamo al n.86: (Nella Chiesa) ci sono ancora coloro che ritengono di sentirsi incoraggiati o almeno autorizzati dalla loro fede a sostenere varie forme di nazionalismo chiuso e violento, atteggiamenti xenofobi, disprezzo e persino maltrattamenti verso coloro che sono diversi. (...) Perciò è importante che la catechesi e la predicazione includano in modo più diretto e chiaro il senso sociale dell’esistenza, la dimensione fraterna della spiritualità, la convinzione sull’inalienabile dignità di ogni persona e le motivazioni per amare e accogliere tutti.
Ancora: Desidero una Chiesa dalle porte aperte; una Chiesa che serve, che esce (...) per accompagnare la vita, sostenere la speranza, essere segno di unità (...), per gettare ponti, abbattere muri, seminare riconciliazione (n.276).
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Nellʼenciclica “Fratelli tutti” il papa si sofferma su tre parole che sono tre atteggiamenti che qualificano il cristiano e che caratterizzano lo stile fraterno. Nel sentire comune tutto questo è visto come qualcosa di sentimentale, emotivo, talvolta banale. Eppure dallʼenciclica emerge la concretezza e lʼimportanza di questi atteggiamenti che non solo arricchiscono lʼumano ma sono veri e propri “annunci di vangelo”.
Il primo atteggiamento sottolineato è la gentilezza. Il tema viene trattato nel capitolo sesto, dove Francesco incoraggia al dialogo e allʼamicizia sociale. Contro lo stile fastidioso, aggressivo ed esasperato il papa propone lo stile gentile: È un modo di trattare gli altri che si manifesta in diverse forme: come gentilezza nel tratto, come attenzione a non ferire con le parole o i gesti, come tentativo di alleviare il peso degli altri. Comprende il «dire parole di incoraggiamento, che confortano, che danno forza, che consolano, che stimolano», invece di «parole che umiliano, che rattristano, che irritano, che disprezzano» (n.223).
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Un tema che a Papa Francesco sta molto a cuore è quello della riconciliazione e del perdono.
Lo affronta nel capitolo settimo, dove invita a costruire percorsi di pace, processi di guarigione e di rinnovato incontro (n.225). Occorre anzitutto ricominciare dalla verità, la quale è compagna inseparabile della giustizia e della misericordia. Verità che non deve condurre alla vendetta, ma piuttosto alla riconciliazione e al perdono (n.227).
Su queste tematiche (di grande rilievo nel cristianesimo e, con differenti modalità anche in altre religioni) afferma il Papa, occorre fare chiarezza perché anche in tanti cristiani, le cose non sono per niente chiare (n.236).
Per prima cosa dobbiamo imparare a stare e a sopportare il conflitto inevitabile (perché fa parte dellʼesperienza umana, n.240).
Seconda sottolineatura molto importante: il perdono non coincide con il buonismo, non è banale, non è una cosa a basso prezzo: il Signore ci chiama ad amare tutti, senza eccezioni, però amare un oppressore non significa consentire che continui ad essere tale; e neppure fargli pensare che ciò che fa è accettabile. Al contrario, il modo buono di amarlo è cercare in vari modi di farlo smettere di opprimere, è togliergli quel potere che non sa usare e che lo deforma come essere umano. Perdonare non vuol dire permettere che continuino a calpestare la dignità propria e altrui, o lasciare che un criminale continui a delinquere (...) Se un delinquente ha fatto del male a me o a uno dei miei cari, nulla mi vieta di esigere giustizia e di adoperarmi affinché quella persona – o qualunque altra – non mi danneggi di nuovo né faccia lo stesso contro altri. Mi spetta farlo, e il perdono non solo non annulla questa necessità bensì la richiede (n.241).
Ciò che conta è non farlo per alimentare un’ira che fa male all’anima della persona e all’anima del nostro popolo, o per un bisogno malsano di distruggere l’altro scatenando una trafila di vendette. Nessuno raggiunge la pace interiore né si riconcilia con la vita in questa maniera.
Francesco dice 'no' alla vendetta e allʼodio: Non possiamo metterci d’accordo e unirci per vendicarci, per fare a chi è stato violento la stessa cosa che lui ha fatto a noi, per pianificare occasioni di ritorsione sotto forme apparentemente legali». (n.242).
Superare ingiustizie, ostilità, diffidenze e calunnie non è facile né automatico. Ciò si può realizzare soltanto superando il male con il bene (cfr Rm 12,21). «A chi la fa crescere dentro di sé, la bontà dona una coscienza tranquilla, una gioia profonda anche in mezzo a difficoltà e incomprensioni. Persino di fronte alle offese subite, la bontà non è debolezza, ma vera forza, capace di rinunciare alla vendetta». Occorre riconoscere nella propria vita che «quel giudizio duro che porto nel cuore contro mio fratello o mia sorella, quella ferita non curata, quel male non perdonato, quel rancore che mi farà solo male, è un pezzetto di guerra che porto dentro, è un focolaio nel cuore, da spegnere perché non divampi in un incendio» (n.243).
La vera riconciliazione non rifugge dal conflitto, bensì si ottiene nel conflitto, superandolo attraverso il dialogo e la trattativa trasparente, sincera e paziente (n.244).
La riconciliazione è un fatto personale, e nessuno può imporla all’insieme di una società, anche quando abbia il compito di promuoverla. Nell’ambito strettamente personale, con una decisione libera e generosa, qualcuno può rinunciare ad esigere un castigo (cfr Mt 5,44-46), benché la società e la sua giustizia legittimamente tendano ad esso. Tuttavia non è possibile decretare una “riconciliazione generale”, pretendendo di chiudere le ferite per decreto o di coprire le ingiustizie con un manto di oblio. Chi può arrogarsi il diritto di perdonare in nome degli altri? È commovente vedere la capacità di perdono di alcune persone che hanno saputo andare al di là del danno patito, ma è pure umano comprendere coloro che non possono farlo. In ogni caso, quello che mai si deve proporre è il dimenticare (n.246). Qui il papa introduce il tema della memoria. Mai dimenticare i segni della malvagità umana: la Shoah, i bombardamenti atomici (nn.247-248). È facile oggi cadere nella tentazione di voltare pagina dicendo che ormai è passato molto tempo e che bisogna guardare avanti. No, per amor di Dio! Senza memoria non si va mai avanti. Eʼ necessario testimoniare alle generazioni successive lʼorrore di ciò che accadde affinché la coscienza non si spenga. Tuttavia occorre fare memoria anche del bene, che in quelle tragiche situazioni non ha smesso di germogliare (n.249).
Altro passo da fare: Il perdono non implica il dimenticare (n.250). Quanti perdonano davvero non dimenticano, ma rinunciano ad essere dominati dalla stessa forza distruttiva che ha fatto loro del male. Spezzano il circolo vizioso (n.251). Il perdono è proprio quello che permette di cercare la giustizia senza cadere nel circolo vizioso della vendetta né nell’ingiustizia di dimenticare (n.252).
Nellʼultima parte del capitolo vengono accennati due temi, due situazioni che sembrano a priva vista delle soluzioni, ma che in realtà non risolvono nulla, anzi, aggiungono nuovi fattori di distruzione: si tratta della guerra e della pena di morte (n.255).
Circa il primo tema il magistero dei papi del ʽ900 è ricchissimo. Francesco tuttavia sottolinea che la guerra non è un fantasma del passato ma è diventata una minaccia costante. Egli ricorda che «la guerra è la negazione di tutti i diritti e una drammatica aggressione all’ambiente. Se si vuole un autentico sviluppo umano integrale per tutti, occorre proseguire senza stancarsi nell’impegno di evitare la guerra tra le nazioni e tra i popoli (n.257).
Il Papa dice “no” anche allʼipotesi di guerra preventiva: oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta”. Mai più la guerra! (n.258). Francesco motiva così questa sua affermazione: Ogni guerra lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato. La guerra è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male (n.261).
No anche allʼuso di armi nucleari, chimiche, biologiche o batteriologiche, con lo scopo di dissuadere gli altri mediante la paura. Sì invece alla sfida per lʼeliminazione totale delle armi nucleari, che il papa vede come imperativo morale e umanitario. E fa una proposta: con il denaro che si impiega nelle armi e nelle altre spese militari, costituiamo un Fondo mondiale per eliminare la fame e per lo sviluppo dei Paesi più poveri (n.262).
Sulla pena di morte il Papa è chiarissimo: inammissibile e deve essere abolita in tutto il mondo; citando san Giovanni Paolo II afferma: essa è inadeguata sul piano morale e non è più necessaria sul piano personale (n.263). Le paure e i rancori facilmente portano a intendere le pene in modo vendicativo, quando non crudele, invece di considerarle come parte di un processo di guarigione e di reinserimento sociale (n.266). Al n.268 vengono elencati alcuni argomenti contrari alla pena di morte: la possibilità dellʼerrore giudiziario; lʼuso che di tale pena fanno i regimi totalitari e dittatoriali; che la utilizzano come strumento di soppressione della dissidenza politica o di persecuzione delle minoranze religiose e culturali, tutte vittime che per le loro rispettive legislazioni sono “delinquenti” (n.268). Infine unʼaffermazione impegnativa e provocatoria: l’ergastolo è una pena di morte nascosta (n.268).
PER RIFLETTERE
PER APPROFONDIRE
PER PREGARE
Ti chiedo perdono Padre buono,
per ogni mancanza d’amore,
per la mia debole speranza e per la mia fragile fede.
Domando a te, Signore, che illumini i miei passi,
la forza di vivere con tutti i miei fratelli e sorelle,
nuovamente fedele al tuo vangelo.
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